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Nel mondo globalizzato di oggi, registrare un marchio a livello internazionale è spesso una necessità per le aziende che desiderano tutelare la propria identità nei mercati esteri. Ma attenzione: la Registrazione Internazionale del Marchio non è un “marchio internazionale” in senso stretto. È un fascio di domande nazionali gestite attraverso un’unica procedura centralizzata, sotto l’egida del sistema dell’Accordo di Madrid e del Protocollo di Madrid.

La Registrazione Internazionale parte da un marchio già depositato o registrato presso un ufficio nazionale o regionale: è il cosiddetto marchio di base. Senza questo elemento, non si può procedere. L’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI/WIPO) gestisce la procedura, ma non concede alcun diritto uniforme globale. Ogni Paese designato valuterà la domanda secondo le proprie leggi, i propri criteri e — se previsto — anche attraverso un esame di novità rispetto ai marchi preesistenti nel proprio registro nazionale.

Ogni Paese ha le sue regole (e non tutti fanno parte del sistema)

Non tutti gli Stati aderiscono al sistema di Madrid. Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea, Giappone, Corea, Cina, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Brasile sono – ad esempio – membri, ma altri mercati rilevanti come Argentina, Sudafrica, Hong Kong, Taiwan o paesi del Golfo sono ancora esclusi. Inoltre, anche tra i Paesi aderenti, il comportamento delle autorità può essere molto diverso: alcuni svolgono un esame formale, altri inviano rapporti d’esame con richieste di modifica o rilievi formali e altri ancora valutano in sede d’esame l’eventuale conflitto con marchi anteriori.

I benefici: risparmio, efficienza e gestione unificata

La Registrazione Internazionale consente, in un’unica procedura, di designare più Paesi contemporaneamente, con un risparmio notevole in termini di tempi, costi e pratiche. Qualsiasi modifica (ad esempio un cambio di titolarità o di indirizzo) potrà poi essere gestita centralmente, senza dover intervenire singolarmente su ogni Paese designato evitando così non solo il ricorso a procedura nazionali, ma spesso anche a scomode e costose legalizzazioni dei documenti.

Ma attenzione: senza assistenza, il rischio è altissimo

Molti pensano che basti un clic o una semplice pratica per ottenere un marchio internazionale. Nulla di più falso. Uno degli aspetti più critici e poco conosciuti è il periodo di dipendenza iniziale: per i primi 5 anni, il marchio internazionale è strettamente legato al marchio di base. Se quest’ultimo decade, viene annullato o rifiutato (anche solo parzialmente), l’intera registrazione internazionale decade con effetto retroattivo. Senza appello.

Un ulteriore pericolo è rappresentato dalle scadenze nazionali: Paesi come Stati Uniti, Messico, Filippine richiedono, entro determinati termini, la presentazione di dichiarazioni di uso effettivo del marchio o documenti specifici per prorogarne la validità. Queste scadenze non vengono comunicate in automatico e — se ignorate — portano alla decadenza del marchio, anche se ufficialmente risulta ancora registrato presso l’OMPI.

Conclusione: un marchio internazionale non si improvvisa

Registrare un marchio a livello internazionale senza il supporto di un consulente esperto significa esporsi a rischi gravissimi: dalla perdita per scadenze non rispettate, alla nullità per mancanza di requisiti locali, alla totale inefficacia nei Paesi dove la domanda viene respinta o mai convertita in registrazione effettiva.

Uno degli elementi centrali del sistema del marchio dell’Unione Europea (marchio UE) è il suo carattere unitario, previsto all’articolo 1, paragrafo 2 del Regolamento (UE) 2017/1001. Questo principio stabilisce che il marchio UE produce effetti uniformi in tutti gli Stati membri: è registrato, ceduto, annullato o dichiarato decaduto in blocco, e può essere vietato solo per l’intero territorio dell’Unione.

Questo approccio centralizzato costituisce uno dei principali punti di forza del sistema europeo, in quanto consente ai titolari di ottenere una protezione ampia e uniforme con una sola procedura. Tuttavia, il carattere unitario comporta anche conseguenze importanti sotto il profilo della registrabilità del marchio, sia per quanto riguarda i motivi relativi (conflitto con diritti anteriori) sia per quelli assoluti (descrittività, contrarietà all’ordine pubblico, ecc.).

1. Impatto sui motivi relativi: anteriorità locali con effetti europei

Un primo effetto del carattere unitario è che un diritto anteriore valido in un solo Stato membro può costituire causa di rigetto di un’intera domanda di marchio UE.
È quindi sufficiente, ad esempio, che un marchio tedesco, spagnolo o finlandese sia considerato simile a quello oggetto della nuova domanda, per impedire la registrazione su scala unionale, anche se tale diritto non ha rilievo negli altri 26 Stati membri.

Questo impone una particolare attenzione nella fase di ricerca: la protezione locale può produrre effetti pan-europei, trasformando un’opposizione fondata su un diritto nazionale in un ostacolo insormontabile per l’intera domanda UE.

2. Motivi assoluti di rifiuto: l’effetto della lingua, della legge e del costume locale

Ancora più delicato è il riflesso del carattere unitario sui motivi assoluti di rifiuto, ovvero quei requisiti che devono essere rispettati affinché un segno possa essere validamente registrato come marchio. Anche qui, un solo Stato può bloccare l’intera domanda.

Descrittività in una sola lingua: il caso “KORTI”

Un esempio concreto riguarda la domanda di marchio KORTI per articoli di abbigliamento. Sebbene il termine possa apparire privo di significato per la maggior parte del pubblico europeo, in danese “korti” è il plurale di “kort”, ossia “corto”. L’EUIPO ha ritenuto che, poiché il termine descrive direttamente una caratteristica degli indumenti rivendicati (es. gonne, pantaloni o camicie corte), il marchio fosse descrittivo ai sensi del Regolamento UE.

Il fatto che tale significato fosse percepito solo dal pubblico danese è stato considerato sufficiente per rigettare l’intera domanda, a dimostrazione di quanto anche lingue minoritarie possano assumere rilevanza nel contesto unitario.

Volgarità in una lingua dell’Unione: il caso “KONA”

Ancora più drastico è il rigetto del marchio KONA, che – secondo l’Ufficio – pur con una grafia leggermente diversa, è un omofono della parola portoghese “cona”, termine ritenuto volgare, degradante e offensivo. L’EUIPO ha rigettato la domanda sulla base di una asserita contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume, affermando:

“Irrespective of its slightly different spelling, ‘KONA’ is a homophone for the manifestly vulgar, degrading and offensive Portuguese term ‘cona’. Accordingly, the sign will be perceived by the population who understands Portuguese in the EU, as shocking and obscene.”

Anche in questo caso, il marchio è stato rigettato integralmente per un effetto limitato a una sola lingua, parlata in Portogallo.

Illiceità e simboli vietati: droga e politica

Il carattere unitario incide anche quando un marchio fa riferimento a prodotti o simboli considerati illegali in una parte dell’Unione.

Un esempio tipico riguarda i marchi che alludono all’uso ricreativo della cannabis. In alcuni Paesi, tale uso è legalizzato o tollerato, mentre in altri è considerato illecito e incompatibile con l’ordine pubblico. Un marchio che promuova esplicitamente sostanze stupefacenti può dunque essere rigettato in base a motivi assoluti, anche se legale in altri territori.

Un’altra categoria riguarda l’uso di simboli politici, ad esempio la falce e martello. Sebbene tale simbolo non sia vietato in molti Stati membri, in Ungheria ne è vietata l’esposizione pubblica in base alla legislazione nazionale. Di conseguenza, l’EUIPO potrebbe rigettare un marchio UE contenente tale elemento grafico, ritenendolo contrario all’ordine pubblico ungherese, con effetto per tutta l’Unione.

L’unità che esclude

Il principio del carattere unitario del marchio UE garantisce una protezione centralizzata, coerente ed efficace per l’intero territorio dell’Unione. Ma questa unitarietà comporta anche un livello di rigore e attenzione superiore nella valutazione della registrabilità.

Un ostacolo linguistico, culturale o legale presente in un solo Stato membro è sufficiente per pregiudicare l’intera registrazione. Per evitare sorprese, è essenziale effettuare verifiche approfondite sulle implicazioni semantiche, legali e culturali del segno proposto, eventualmente optando per un sistema misto che affianchi marchi nazionali o internazionali designanti singoli Paesi UE.

L’unità del sistema, se mal gestita, può infatti diventare un punto di vulnerabilità anziché di forza. Pianificare con consapevolezza significa tutelare davvero il valore di un marchio su scala europea.

La storia dei brevetti affonda le sue radici nel cuore del Rinascimento, un’epoca di fervente creatività e scoperta. Il primo documento che può essere considerato, a tutti gli effetti, un brevetto moderno fu concesso nel 1421 dalla Repubblica di Venezia a Filippo Brunelleschi, celebre architetto e ingegnere fiorentino. Questa concessione non solo riconosceva ufficialmente l’ingegno dell’inventore, ma apriva la strada a un sistema normativo destinato a trasformare profondamente il rapporto tra invenzione e società.

L’invenzione del Brunelleschi

Il brevetto concesso a Brunelleschi riguardava una “barca con gru”, una sorta di natante con sistema di sollevamento meccanico progettato per il trasporto di marmi lungo l’Arno, da Pisa a Firenze. Questo mezzo innovativo, descritto come una “macchina atta a trasportare merci su acque”, mirava a facilitare la movimentazione dei pesanti materiali da costruzione necessari per la realizzazione della cupola del Duomo di Firenze, altro celebre capolavoro dell’architetto.

La tutela: contenuto e durata

Il Senato veneziano concesse a Brunelleschi un privilegio esclusivo della durata di tre anni: durante questo periodo, nessun altro poteva costruire, utilizzare o copiare l’invenzione senza il suo consenso. In caso contrario, le autorità avrebbero confiscato il natante e applicato sanzioni. Questo tipo di protezione – basato su un privilegio temporaneo – segnava una novità giuridica di rilievo: per la prima volta, l’innovazione tecnica veniva tutelata attraverso un diritto soggettivo esclusivo, riconosciuto dallo Stato.

Un precedente giuridico e culturale

Il brevetto a Brunelleschi non fu solo un atto politico o commerciale, ma un riconoscimento formale del valore della creatività tecnica. Fino ad allora, le conoscenze e le invenzioni venivano spesso custodite come segreti di bottega o tramandate oralmente. L’atto veneziano, invece, formalizzava un patto tra inventore e collettività: in cambio della divulgazione dell’invenzione, l’inventore riceveva un’esclusiva temporanea. Questo principio è ancora oggi alla base del moderno sistema brevettuale.

L’importanza del primo brevetto

L’importanza del primo brevetto risiede nella sua funzione sistemica: ha inaugurato un meccanismo di incentivo giuridico all’innovazione. Offrendo una tutela ufficiale, lo Stato favoriva la diffusione della conoscenza tecnica e stimolava il progresso economico e industriale. Il privilegio concesso a Brunelleschi può quindi essere visto come il prototipo delle leggi sui brevetti, che nei secoli successivi si sarebbero evolute fino agli attuali sistemi nazionali e sovranazionali di tutela della proprietà industriale.

In conclusione, il primo brevetto non fu solo un atto amministrativo, ma l’alba di una nuova epoca in cui l’ingegno umano poteva essere riconosciuto, protetto e valorizzato come risorsa strategica. Un’intuizione che, sebbene nata nel contesto delle repubbliche mercantili italiane del Quattrocento, conserva ancora oggi una straordinaria attualità.

Nell’attuale ecosistema competitivo, il marchio rappresenta una delle principali leve strategiche per differenziare un prodotto o un servizio offerti da una azienda rispetto alla concorrenza. Quando il segno distintivo in questione è complesso, una corretta strategia di deposito assume un ruolo centrale nella tutela del brand.

Cosa si intende per marchio complesso

Un marchio complesso è un segno che integra più componenti – tipicamente una parola (o parole) ed una rappresentazione grafica – che operano congiuntamente al fine di identificare l’origine commerciale di un prodotto o servizio.

Nel contesto operativo, accade frequentemente che l’impresa opti per la registrazione della sola versione “mista” (cioè, l’insieme grafico + verbale) del segno distintivo ideato, ritenendola sufficiente a garantire la protezione dell’intero brand.

Questo approccio, tuttavia, presenta alcuni rischi significativi; la registrazione di un marchio complesso solo nella sua versione mista conferisce, infatti, diritti sull’intera combinazione (parola + rappresentazione/elemento grafico) così come appare nel deposito, e non sui singoli elementi isolati.

Conseguentemente, se l’azienda iniziasse a sfruttare separatamente, ad esempio, l’elemento grafico – come, favicon, icona app o elemento di packaging – rispetto al marchio complesso registrato, questo non garantirebbe all’azienda stessa di poter vantare dei diritti di esclusiva sull’elemento singolo. Perciò, se un concorrente dovesse utilizzare il medesimo segno grafico, o un segno simile, l’azienda titolare del marchio complesso non sarebbe legittimata a far valere la tutela derivante dalla registrazione del suo marchio. L’azienda, infatti, non deterrebbe, nel caso specifico, diritti esclusivi sull’uso dell’elemento grafico isolato.

 Inoltre, è importante ricordare che il titolare del marchio complesso, nel caso in cui scegliesse di utilizzare solo un elemento del marchio registrato senza, tuttavia, averlo protetto con una registrazione separata, rischierebbe, dopo cinque anni di non utilizzo del marchio effettivamente registrato, la decadenza del titolo stesso.

L’uso di un singolo elemento di un marchio complesso non corrisponde, infatti, all’uso effettivo necessario per evitare la decadenza del marchio complesso per il quale si detengono i diritti.

Le buone prassi nella strategia di tutela

Per ottenere una protezione completa ed efficace, nel caso di un marchio complesso, è consigliabile un approccio “modulare” alla registrazione, ossia:

  • registrazione del marchio denominativo → protegge l’elemento verbale, ossia la parola (o combinazione di parole) indipendentemente dalla forma grafica o tipografica; può essere utile contro riproduzioni fonetiche o ortografiche simili.
  • registrazione del marchio figurativo (elemento grafico) → garantisce la tutela dell’elemento visivo (logotipo, pittogramma, icona); è un elemento cruciale in settori come moda, design, cosmetica e app mobile, che molto spesso sfruttano l’elemento grafico scorrelato dalla parola.
  • Registrazione del marchio misto → offre protezione per la composizione complessiva, riflettendo la modalità prevalente d’uso sul mercato.

Questa strategia diversificata consente, all’azienda titolare, di

  • poter utilizzare i singoli elementi parziali godendo della tutela data dalle varie registrazioni e senza incorrere in rischi;
  • esercitare azioni legali basate su specifici elementi registrati del marchio complesso, nei confronti di terze parti;
  • dimostrare più agevolmente l’uso effettivo dei segni, che di fatto annullano il rischio di decadenza dei marchi stessi.

È, infine, importante ricordare che una protezione efficace del marchio, in generale, non si esaurisce al deposito della domanda di registrazione o, nel caso di marchio complesso, delle domande di registrazione. Fondamentale risulta essere altresì, per il titolare, attivare un servizio di sorveglianza marchi per rilevare tentativi di imitazione e, soprattutto, rinnovare separatamente ogni tipologia di marchio registrato entro i termini stabiliti, in maniera tale da evitare decadenze parziali.

La protezione del marchio complesso richiede una visione strategica che vada oltre la mera registrazione dell’insieme grafico-verbale. Investire nella registrazione separata dell’elemento grafico consente di consolidare il valore del brand, ridurre i rischi legali e garantire maggiore flessibilità nell’evoluzione della comunicazione visiva.

In un contesto in cui la brand identity passa sempre più per canali digitali e visivi, non considerare l’elemento grafico come parte integrante dell’asset immateriale significa rinunciare a una quota significativa del valore competitivo generato dal marchio.

Nel campo della proprietà industriale, la Bolar Clause rappresenta una deroga fondamentale al diritto esclusivo conferito dal brevetto, soprattutto in ambito farmaceutico. La sua funzione è quella di bilanciare il diritto del titolare del brevetto a godere in via esclusiva dell’invenzione per un periodo determinato, con l’interesse pubblico a garantire l’accesso tempestivo a farmaci equivalenti (i cosiddetti generici) non appena scada la protezione brevettuale.

Cosa prevede la Bolar Clause

La Bolar Clause prende il nome da una causa statunitense del 1984 (Roche Products Inc. v. Bolar Pharmaceutical Co.), che ha acceso il dibattito sulla possibilità per un’azienda farmaceutica di iniziare a sperimentare un farmaco generico prima della scadenza del brevetto del prodotto di riferimento. In Europa, la clausola è stata recepita con l’art. 10, comma 6, della Direttiva 2001/83/CE, e successivamente trasposta nell’ordinamento italiano dall’art. 68, comma 1, lettera b) del Codice della Proprietà Industriale (CPI).

La norma stabilisce che non costituisce violazione del brevetto l’utilizzo dell’invenzione brevettata da parte di terzi ai fini dell’espletamento delle prove e degli studi necessari per l’autorizzazione all’immissione in commercio di medicinali, anche generici. In sostanza, consente alle aziende concorrenti di avviare in anticipo le attività preparatorie (test clinici, sviluppo industriale, produzione di campioni) per immettere tempestivamente sul mercato il generico alla scadenza del brevetto, evitando ritardi ingiustificati nella disponibilità terapeutica e nella concorrenza.

Il bilanciamento degli interessi: innovazione e salute pubblica

Il cuore della Bolar Clause risiede in un equilibrio giuridico ed economico complesso, che mette in relazione due interessi contrapposti ma entrambi legittimi e meritevoli di tutela: l’interesse privato del titolare del brevetto e l’interesse pubblico alla tutela della salute e alla libera concorrenza nel mercato dei farmaci.

Da un lato, il brevetto tutela l’innovazione, concedendo al titolare un’esclusiva temporanea sull’invenzione in cambio della sua divulgazione. Questo meccanismo è essenziale per incentivare gli ingenti investimenti in ricerca e sviluppo nel settore farmaceutico, spesso caratterizzati da tempi lunghi, elevato rischio di insuccesso e costi elevati.

Dall’altro lato, tuttavia, la tutela brevettuale non può tradursi in una forma di rendita perpetua che ritardi l’ingresso dei generici anche oltre la scadenza del brevetto. Se le aziende concorrenti fossero costrette ad attendere la fine della protezione brevettuale per iniziare a predisporre i dossier autorizzativi, l’effetto concreto sarebbe un prolungamento di fatto del monopolio legale, a discapito dei sistemi sanitari pubblici e dell’accesso tempestivo ai farmaci a costo ridotto.

È qui che interviene la Bolar Clause: essa non limita il diritto esclusivo, ma ne regola la transizione, consentendo attività preparatorie strettamente funzionali all’ingresso del prodotto generico sul mercato. La sua funzione è quindi di riequilibrio, garantendo che il diritto di esclusiva non sfoci in un ostacolo alla libera concorrenza e alla sostenibilità del sistema sanitario, soprattutto in contesti in cui l’accesso al farmaco può incidere su diritti fondamentali come quello alla salute.

Questo equilibrio si riflette anche nella giurisprudenza, che ha progressivamente interpretato la clausola in chiave teleologica, privilegiando una lettura funzionale alla finalità sottesa: evitare ritardi postumi nell’immissione dei generici, senza pregiudicare la sostanza della tutela brevettuale.

La sentenza n. 18372/2024

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18372 del 5 luglio 2024, ha offerto un importante chiarimento interpretativo. In particolare, ha stabilito che rientrano nell’ambito di applicazione della Bolar Clause non solo le attività sperimentali strettamente cliniche, ma anche quelle tecnico-produttive, come la produzione su scala pilota e la predisposizione del dossier regolatorio per l’AIFA o per l’EMA.

La Corte ha ribadito che tali attività sono strumentali e necessarie per l’ottenimento dell’autorizzazione all’immissione in commercio, e quindi coerenti con la finalità legittimata dall’art. 68 CPI. Un’interpretazione restrittiva della clausola, che escludesse queste fasi dalla deroga, avrebbe l’effetto di estendere indebitamente la protezione brevettuale al di là della sua naturale scadenza, in contrasto con i principi comunitari.

La Bolar Clause si conferma quindi come uno strumento essenziale di equilibrio normativo tra tutela della proprietà industriale e diritto alla salute. La sentenza n. 18372/2024 rappresenta un tassello giurisprudenziale importante, nella misura in cui chiarisce l’estensione delle attività legittimate dalla clausola, valorizzando un’interpretazione funzionale e aderente agli interessi pubblici sottesi alla normativa.

In un settore ad alta intensità innovativa e con forti implicazioni sociali come quello farmaceutico, è fondamentale che il diritto dei brevetti non si trasformi in una barriera all’accesso, ma resti uno strumento dinamico di promozione dell’innovazione e della diffusione del progresso scientifico, in un contesto di equilibrio tra incentivi privati e bisogni collettivi.

La scelta di un marchio è cruciale per l’identità di un’impresa e per la sua protezione giuridica. La giurisprudenza e la dottrina hanno sviluppato, nel tempo, una distinzione fondamentale tra i cosiddetti marchi forti e marchi deboli, con implicazioni significative in termini di tutela legale e strategia commerciale.

Marchio forte

Un marchio forte è caratterizzato da un elevato grado di distintività, dato dalla sua attitudine a identificare, in via esclusiva, l’azienda che ne è titolare e/o i prodotti/servizi che questa commercializza.

Secondo la giurisprudenza, si considera marchio forte quando il segno non ha aderenze concettuali evidenti con il prodotto o servizio che contraddistingue. Esempi noti includono “Nike”, “Apple” e “Kodak”. Ciò fa sì che il consumatore medio sia portato ad associare, in maniera immediata, al marchio in questione una specifica azienda e una serie di prodotti e servizi, senza che il segno stesso sia minimamente descrittivo del prodotto di riferimento.

La capacità distintiva, di conseguenza, è sicuramente uno degli elementi alla base di un marchio forte. Tuttavia, a questo ne possono e dovrebbero seguire altri, tra cui in primis una registrazione e protezione legale, nonché investimenti in pubblicità e marketing per renderlo noto ai consumatori. Se i prodotti/servizi ad esso associati sono poi di qualità, questo contribuirà ulteriormente ad incrementare il grado di fedeltà del consumatore stesso.

Marchio debole e “secondary meaning”

Un marchio debole, al contrario, è spesso descrittivo o generico, con un basso grado di distintività. La giurisprudenza evidenzia che un marchio debole è quello che ha un collegamento logico intenso con il prodotto o servizio che rappresenta. Conseguentemente, un marchio debole può essere più difficile da proteggere attraverso la registrazione ed è, al contempo, più vulnerabile al rischio di confusione e contraffazione.

Sovente, un marchio debole comprende il nome del prodotto o del servizio che l’azienda titolare del marchio produce e/o commercializza.

I marchi deboli, quindi, possono soffrire di scarsa capacità di attrattiva nei confronti di clienti, ossia possono non essere in grado di catturare, in maniera efficace, l’attenzione del consumatore né, di conseguenza, trasmettere in maniera efficace i valori tipici dell’azienda titolare.

Ai marchi deboli generalmente non viene concessa la registrazione, in quanto quest’ultima comporta un diritto di uso esclusivo del segno depositato; se il segno in questione, tuttavia, è una parola che è il nome stesso del prodotto commercializzato dall’azienda, ad esempio “divano”, diventerebbe impossibile per terzi usare la medesima parola.

Seppur di per sé svantaggiato, non è tuttavia prestabilito che un marchio debole debba necessariamente mantenersi tale nel tempo. Un marchio inizialmente debole può, infatti, acquisire forza attraverso l’uso prolungato e la costruzione di una reputazione, secondo un processo noto come “secondary meaning”.

Più nel dettaglio, il “secondary meaning” si fonda sull’articolo 13 del Codice di proprietà industriale e prevede che possano essere registrati come marchi i segni che, anche se inizialmente privi di carattere distintivo, lo abbiano acquistato per l’uso che ne è stato fatto.

Ciò significa che un marchio potenzialmente debole può acquisire una forte capacità distintiva nel caso in cui vengano compiuti, su di esso, ingenti investimenti pubblicitari e di marketing.

Un caso esemplificativo è quello dato dal marchio “iPhone”, che sarebbe di per sé un marchio debole, in quanto composto quasi esclusivamente dalla parola “phone”, nome generico in lingua del prodotto che contraddistingue. Tuttavia, i notevoli investimenti a livello di marketing e pubblicità focalizzati sui prodotti marchiati iPhone hanno fatto sì che, oggigiorno, un consumatore medio sia immediatamente in grado di riconoscere quando ha di fronte un prodotto iPhone originale e quando, invece, ha a che fare con un prodotto differente.

Consigli pratici

La selezione di un marchio è una decisione strategica che influisce sulla protezione legale e sull’immagine dell’impresa. Investire in un marchio forte può offrire vantaggi significativi in termini di tutela e riconoscibilità. Tuttavia, anche i marchi deboli, se opportunamente gestiti, possono evolvere e acquisire forza nel tempo.

Alle aziende che intendono ideare e registrare un proprio marchio, si consiglia di:

  • Evitare segni descrittivi o generici del prodotto o servizio. Questi, pur potendo inizialmente sembrare vantaggiosi in termini di immediatezza comunicativa, risultano infatti deboli sotto il profilo giuridico.
  • Puntare su segni fantasiosi, arbitrari o suggestivi, che non abbiano collegamenti diretti con le caratteristiche del prodotto o servizio. Questo aumenta il grado di distintività e rende più efficace la protezione contro usi illeciti.
  • Effettuare una ricerca di anteriorità approfondita prima della registrazione, per assicurarsi che non esistano marchi identici o simili già registrati.
  • Valutare una strategia di brand a lungo termine, che consideri il possibile ampliamento del business in altri settori o mercati: un marchio forte può facilmente estendere la sua tutela anche in classi merceologiche affini.
  • Registrare il marchio a livello nazionale ed europeo (o internazionale), a seconda del mercato di riferimento, per rafforzare la propria posizione giuridica e commerciale.

Un marchio ben concepito, forte e distintivo non è solo una componente visiva del business, ma un vero e proprio asset aziendale, tutelabile, valorizzabile e, nei casi migliori, anche cedibile o licenziabile.

Nel linguaggio comune, il termine “invenzione” evoca l’immagine dell’inventore geniale, dell’intuizione improvvisa che cambia il corso della tecnologia o della vita quotidiana. In realtà, dietro ogni invenzione c’è un processo strutturato: ricerca, sviluppo, sperimentazione. Quando ci si muove in ambito giuridico, e in particolare nel diritto industriale, il concetto di invenzione assume contorni precisi, ancorati a criteri oggettivi. Comprenderne la portata è essenziale, specialmente per chi opera nel settore dell’innovazione o gestisce asset aziendali immateriali .

L’invenzione come categoria giuridica

Giuridicamente l’invenzione è la soluzione nuova e originale ad un problema tecnico, suscettibile di applicazione industriale. Essa rappresenta, pertanto, una risposta concreta e funzionale a una esigenza pratica. La disciplina delle invenzioni è contenuta nel Codice della Proprietà Industriale (D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), che ne regola la tutela mediante brevetto.

Affinché un’invenzione sia brevettabile, devono ricorrere tre requisiti fondamentali:

  • Novità: l’invenzione non deve essere già compresa nello “stato della tecnica”, ovvero tra ciò che è stato reso accessibile al pubblico, in qualsiasi modo, prima della data di deposito della domanda di brevetto.
  • Attività inventiva: l’invenzione non deve risultare ovvia per un “esperto del settore”, cioè non deve costituire una semplice e prevedibile evoluzione delle conoscenze tecniche già disponibili.
  • Industrialità: l’invenzione deve poter essere realizzata o utilizzata in qualsiasi settore industriale, compreso quello agricolo.

Le diverse tipologie di invenzione

Le invenzioni brevettabili possono distinguersi in diverse categorie basate sull’oggetto specifico della protezione:

  1. Invenzioni di prodotto
    Si tratta di quelle invenzioni che riguardano un nuovo oggetto materiale, una sostanza, un dispositivo, un composto chimico, una macchina, ecc. È la categoria più tradizionale e immediata. Un esempio classico è un nuovo tipo di sensore elettronico, un farmaco, un utensile meccanico.
  2. Invenzioni di procedimento
    Riguardano un nuovo modo di realizzare un prodotto o di ottenere un risultato tecnico. Il brevetto copre, in questo caso, il processo produttivo, non il prodotto in sé, salvo che anche questo non sia nuovo. Un esempio è un metodo innovativo per sintetizzare una molecola, o una tecnica di stampa che consente maggiore precisione.
  3. Invenzioni di uso
    Comprendono l’applicazione nuova e non ovvia di un prodotto già noto per ottenere un effetto tecnico in un campo diverso. Ad esempio, l’uso di una sostanza nota come antivirale in ambito agricolo, con effetti inediti, può costituire un’invenzione brevettabile.
  4. Invenzioni biotecnologiche
    Sono una categoria specifica e molto regolata, che comprende sequenze geniche, microrganismi modificati, processi microbiologici e loro applicazioni industriali. Anche in questo ambito, la brevettabilità è ammessa solo se si rispettano determinati requisiti e limiti etici.

Cosa non può costituire un’invenzione brevettabile

Il Codice della Proprietà Industriale, in linea con la Convenzione sul brevetto europeo (CBE), esclude dalla brevettabilità:

  • Le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici: si tratta di conoscenze che descrivono fenomeni della natura, senza che vi sia un’applicazione tecnica concreta.
  • Le creazioni estetiche, come le opere d’arte o di design (che possono essere tutelate attraverso il diritto d’autore o il disegno/modello).
  • I piani, principi e metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciale, nonché i programmi per elaboratore “in quanto tali”.
  • Le presentazioni di informazioni.

Va chiarito che alcune di queste esclusioni non sono assolute: ad esempio, un programma per elaboratore può essere brevettabile se produce un effetto tecnico ulteriore (come il controllo di un processo industriale). È sempre necessaria una valutazione caso per caso.

Non sono inoltre brevettabili le invenzioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume, né i metodi di trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale, che sono espressamente esclusi dalla tutela brevettuale.

Le invenzioni di servizio e la titolarità del diritto

Una particolare attenzione merita il tema della titolarità dell’invenzione, specialmente in ambito aziendale. L’invenzione può nascere dall’attività di un dipendente:

  • Se l’invenzione rientra nell’oggetto del contratto di lavoro e viene realizzata nello svolgimento delle mansioni assegnate, il diritto al brevetto spetta al datore di lavoro.
  • Se l’invenzione è realizzata fuori dall’ambito del contratto, ma con l’uso di mezzi o conoscenze aziendali, il dipendente ha diritto a un congruo compenso.
  • In altri casi, l’invenzione spetta all’inventore, con facoltà per l’impresa di acquisire una licenza o il titolo stesso.

La funzione dell’invenzione: innovare, proteggere, valorizzare

Un’invenzione ha un ruolo fondamentale nel sistema economico e giuridico: consente all’impresa di differenziarsi, di ottenere un vantaggio competitivo e, attraverso la protezione brevettuale, di valorizzare l’investimento in ricerca e sviluppo.

Il brevetto garantisce un diritto di esclusiva sull’invenzione per un periodo massimo di 20 anni, durante i quali il titolare può impedire a terzi di utilizzare, produrre, commercializzare o importare l’invenzione senza autorizzazione. Questo diritto può essere ceduto, concesso in licenza, dato in pegno o anche conferito in società, costituendo un vero bene immateriale con valore economico.

Inoltre, l’invenzione può essere oggetto di valorizzazione nei bilanci, come attivo immateriale, e contribuire all’aumento della reputazione e dell’attrattività dell’impresa sul mercato.

L’invenzione, per come è definita dal diritto industriale, non è soltanto una manifestazione di creatività tecnica: è un asset strategico. Individuarne correttamente le caratteristiche, sapere cosa è brevettabile e cosa no, comprendere le implicazioni contrattuali e aziendali legate alla sua titolarità e sfruttamento, sono aspetti cruciali per chi fa innovazione e per chi tutela i diritti derivanti dalla proprietà industriale. Nel contesto economico contemporaneo, dove la competizione si gioca sempre più sulla conoscenza e sulla tecnologia, comprendere il valore di un’invenzione significa comprendere una delle chiavi dello sviluppo.

La protezione delle innovazioni in ambito vegetale rappresenta un tema di crescente rilevanza, specialmente alla luce dello sviluppo di nuove tecnologie genetiche e della necessità di garantire la sicurezza alimentare in un contesto globale in trasformazione. Tra gli strumenti giuridici previsti a tal fine, i brevetti per nuove varietà vegetali svolgono un ruolo centrale, accanto ad altri sistemi di protezione come il diritto di costitutore vegetale (plant breeder’s right).

Cosa sono i brevetti per varietà vegetali?

I brevetti per varietà vegetali sono titoli di proprietà industriale che conferiscono al titolare il diritto esclusivo di produrre, utilizzare, commercializzare e cedere una nuova varietà vegetale, purché questa soddisfi determinati requisiti legali. Si tratta, in sostanza, di uno strumento di tutela delle innovazioni ottenute nel campo dell’agricoltura e delle biotecnologie vegetali.

In Europa, il sistema brevettuale convive con la protezione offerta dal sistema UPOV (Convenzione Internazionale per la Protezione delle Nuove Varietà Vegetali), attuato tramite l’Ufficio comunitario delle varietà vegetali (CPVO) e previsto anche in Italia dal D.lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale), agli articoli 100 e ss.

Cosa tutelano?

I brevetti per varietà vegetali tutelano invenzioni biotecnologiche che riguardano:

  • nuove varietà ottenute tramite ingegneria genetica o tecniche avanzate di selezione;
  • sequenze genetiche isolate e associate a una funzione;
  • metodi specifici di produzione di varietà resistenti a malattie, parassiti, siccità, ecc.

Tuttavia, non sono brevettabili in Europa:

  • le varietà vegetali in quanto tali (art. 53(b) CBE, Convenzione sul Brevetto Europeo), se non soddisfano i requisiti di novità e inventività;
  • i procedimenti essenzialmente biologici per la produzione di piante (es. incrocio e selezione tradizionale);
  • le varietà già protette dal diritto di costitutore vegetale (salvo invenzioni che vadano oltre la varietà in sé).

Requisiti di brevettabilità

Per ottenere un brevetto, la varietà o l’invenzione vegetale deve soddisfare i consueti requisiti di brevettabilità:

  • novità (non divulgata prima della data di deposito);
  • attività inventiva (non ovvia per un esperto del settore);
  • applicabilità industriale;
  • descrizione sufficiente (la varietà o il gene devono essere descritti in modo tale da poter essere riprodotti da un esperto del settore).

Come funziona la protezione?

Una volta ottenuto, il brevetto conferisce al titolare un diritto esclusivo della durata di 20 anni dalla data di deposito. In caso di diritto di costitutore vegetale (che può coesistere o essere alternativo), la durata è di 25 o 30 anni a seconda della specie.

La tutela consente di vietare a terzi:

  • la produzione e la vendita della varietà brevettata;
  • l’uso del materiale vegetale a fini commerciali;
  • l’importazione e l’esportazione non autorizzata.

Quali sono i vantaggi

1. Incentivo all’innovazione
Il sistema brevettuale garantisce un ritorno economico a chi investe in ricerca e sviluppo di nuove varietà, incentivando il progresso in agricoltura e biotecnologia.

2. Protezione efficace del know-how
Il brevetto consente di proteggere varietà e tecnologie che possono avere un alto valore commerciale, specialmente in ambito OGM e miglioramento genetico.

3. Strumento di valorizzazione
Come ogni titolo di proprietà industriale, il brevetto può essere ceduto, concesso in licenza, valorizzato economicamente e indicato come asset in bilancio.

E quali gli vantaggi e le criticità?

1. Accesso limitato e concentrazione del mercato
La brevettazione può ostacolare l’accesso alle risorse genetiche da parte di piccoli agricoltori o ricercatori pubblici, accentuando la concentrazione nelle mani di grandi multinazionali.

2. Sovrapposizione normativa
La coesistenza tra il sistema brevettuale e il diritto di costitutore vegetale può generare incertezza, anche giurisprudenziale, specie nei casi in cui si tenta di brevettare tratti genetici presenti in varietà già protette.

3. Questioni etiche
Soprattutto nel caso di piante geneticamente modificate, la brevettabilità solleva interrogativi etici sull’appropriazione di risorse naturali e sulla sostenibilità del sistema agricolo.

I brevetti per varietà vegetali rappresentano uno strumento strategico per la tutela dell’innovazione nel settore agroalimentare e biotech, ma devono essere gestiti in modo equilibrato per non compromettere l’accesso equo alle risorse genetiche e la sostenibilità del settore primario. Una corretta regolazione, l’uso responsabile dei diritti e l’integrazione con altri strumenti di tutela come il diritto di costitutore vegetale sono elementi chiave per garantire un equilibrio tra innovazione, sviluppo e interesse pubblico.

Nel contesto della sanità globale, il sistema dei brevetti farmaceutici rappresenta un nodo cruciale: da un lato stimola la ricerca e lo sviluppo di nuove terapie, dall’altro può limitare l’accesso ai farmaci salvavita, in particolare nei Paesi a basso e medio reddito. Su questo equilibrio delicato si concentra l’articolo “Pharmaceutical Patents’ Scope of Protection and WTO Waiver Discussion. Balancing the Pharmaceutical Innovation Ecosystem With the Global Right to Health”, firmato da Arnold Vahrenwald e Giovanni A. Pedde e pubblicato sull’UniCamillus Global Health Journal.

Il contributo nasce nell’ambito della Commissione di Ricerca in ambito Economico e Legale sullo sfruttamento dei brevetti farmaceutici (CRELBF), istituita da UniCamillus, e si inserisce nel dibattito internazionale sulle riforme necessarie per conciliare protezione brevettuale, equità e diritto universale alla salute.

L’insegnamento della pandemia: accesso diseguale alle cure

La pandemia di Covid-19 ha acceso i riflettori sui limiti strutturali del sistema attuale. Mentre i Paesi ad alto reddito hanno potuto garantirsi forniture di vaccini e trattamenti grazie a capacità produttive e negoziali consolidate, molte nazioni in via di sviluppo si sono trovate escluse, anche a causa delle restrizioni derivanti dalla protezione brevettuale. Questo scenario ha messo in discussione l’efficacia del meccanismo delle licenze obbligatorie previste dall’Accordo TRIPS, troppo complesse per essere attivate tempestivamente in situazioni di emergenza.

La proposta: sospensione automatica dei diritti in caso di pandemia

Secondo Vahrenwald e Pedde, è urgente introdurre una clausola di esenzione automatica per i brevetti sui farmaci essenziali, attivabile in caso di pandemia o emergenza sanitaria globale. Una misura che consentirebbe di superare rapidamente gli ostacoli legali alla produzione e distribuzione di cure salvavita, senza annullare i principi fondamentali del sistema brevettuale.

Nuovi modelli per finanziare l’innovazione

Affinché la tutela dell’interesse pubblico non comprometta l’incentivo all’innovazione, gli autori propongono modelli alternativi di finanziamento, tra cui i “prize funds” (fondi premio) e incentivi statali condizionati alla condivisione del know-how con i produttori di farmaci generici. Tali strumenti permetterebbero di riconoscere il valore della ricerca, assicurando al contempo una più equa distribuzione dei benefici.

Verso una governance globale della proprietà intellettuale per la salute

Il contributo si chiude con un appello ambizioso ma necessario: la creazione di un ente internazionale indipendente, sviluppato in collaborazione con OMS e WTO, incaricato di monitorare le politiche sui brevetti farmaceutici e promuovere una governance globale della proprietà intellettuale orientata alla salute pubblica.

In un mondo sempre più interconnesso e vulnerabile, l’equilibrio tra protezione dell’innovazione e diritto alla salute non può più essere affidato alla sola logica di mercato. Serve una visione sistemica e cooperativa, capace di tradurre l’esperienza della crisi pandemica in una riforma duratura e sostenibile.

Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) ha di recente pubblicato il nuovo report 2024 sull’attività brevettuale, e i numeri parlano chiaro: l’interesse per i brevetti in Italia è in forte espansione, a testimonianza del crescente riconoscimento del loro valore da parte delle imprese come asset strategico per innovazione, competitività e crescita.

Domande di brevetto in aumento: +7,4% rispetto al 2023

Nel corso del 2024, sono state depositate in Italia 10.148 domande di brevetto per invenzione industriale, con un incremento del 7,4% rispetto al 2023. Si tratta del secondo anno consecutivo di crescita, segno tangibile di una tendenza positiva che coinvolge aziende, centri di ricerca e singoli inventori.

Anche se le domande per modello di utilità registrano una lieve flessione (-1,1%), il numero rimane elevato con 1.830 richieste. A queste si aggiungono 13 domande per nuova varietà vegetale, confermando la vitalità innovativa anche nel settore agroalimentare.

Un segnale chiaro: le imprese credono nella proprietà industriale

I dati diffusi dal MIMIT dimostrano che sempre più imprese italiane considerano i brevetti come strumenti centrali di tutela e valorizzazione dell’innovazione. Non si tratta solo di protezione giuridica, ma di un vero e proprio investimento strategico in grado di rafforzare il posizionamento competitivo sui mercati nazionali e internazionali.

Il ricorso crescente alla brevettazione è anche indice di una maggiore consapevolezza del ruolo che la proprietà industriale può giocare nella crescita aziendale, nella capacità di attrarre investimenti e nel consolidamento di vantaggi tecnologici.

Internazionalizzazione e brevetto unitario

Nel 2024 l’UIBM ha emesso 34.358 provvedimenti, con una flessione del 7,3% dovuta principalmente alla riduzione delle convalide di brevetto europeo, effetto dell’entrata in vigore del brevetto europeo con effetto unitario. Questo nuovo strumento consente alle imprese di ottenere una protezione omogenea in 17 Paesi dell’UE con un’unica procedura, semplificando tempi e costi.

Nel frattempo, aumentano le domande internazionali: +14% per l’apertura della fase nazionale italiana da domande PCT, con 251 nuovi depositi. Una tendenza che segnala una crescente volontà delle imprese italiane di espandere la tutela dell’innovazione oltre i confini nazionali.

Il report 2024 conferma una realtà ormai evidente: la proprietà industriale è sempre più centrale nella strategia di crescita delle imprese italiane. La crescente attenzione verso i brevetti rappresenta una risposta concreta all’evoluzione dei mercati, dove l’innovazione è la chiave per la competitività.

Investire in brevetti non è solo una scelta di protezione, ma un passo essenziale per valorizzare la ricerca, attrarre capitali, e costruire un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo. I numeri del MIMIT parlano chiaro: il sistema Italia ha imboccato la strada giusta.

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