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Nel 2013, durante una visita negli Stati Uniti, il principe Harry assistette ai Warrior Games, una competizione sportiva dedicata a veterani e militari feriti. L’esperienza lo colpì profondamente: ne nacque l’idea di creare un evento simile, ma con una portata internazionale. Da lì prese forma, l’anno successivo, la Invictus Games Foundation, un’organizzazione benefica volta a sostenere e promuovere le future edizioni dei giochi, che esordirono ufficialmente nel 2014 a Londra.

Con il successo crescente, la visione della fondazione non si limitò solo alla manifestazione sportiva: si pensò anche ad associare un marchio forte, in grado di identificare gadget, abbigliamento e articoli promozionali legati al brand “Invictus”.

Il deposito del marchio

Il 9 febbraio 2022, la Invictus Games Foundation depositò la domanda di registrazione del marchio “Invictus” sia nell’Unione Europea che nel Regno Unito. Il segno doveva contraddistinguere, tra le altre cose, prodotti come t-shirt, cappellini e articoli promozionali, collegati alla missione benefica della fondazione.

Ma la registrazione si scontrò con un ostacolo inatteso: l’azienda italiana Invicta, storica produttrice di zaini e accessori, decise di opporsi formalmente. A suo avviso, “Invictus” era troppo simile a “Invicta” – due parole che, nella radice latina, condividono lo stesso significato (“invincibile”) e la stessa sonorità. L’uso del nuovo marchio, sosteneva la società, avrebbe potuto confondere i consumatori, specialmente nel settore dell’abbigliamento e degli accessori.

Il confronto

Durante il procedimento davanti all’ufficio competente, la fondazione non si limitò a invocare la notorietà dell’evento Invictus: intervenne in prima persona anche il principe Harry, tramite testimonianza. Il principe volle, infatti, difendere personalmente la propria fondazione, testimoniando come il termine “Invictus” porti con sé un significato elevato di regalità e forza, valori che si collegavano sia alla sua figura pubblica, sia allo spirito dei veterani che gli Invictus Games intendevano celebrare.

La difesa italiana, tuttavia, rimase ferma: “Invicta” e “Invictus”, sostennero i rappresentanti, sono varianti della stessa radice latina e un marchio così simile avrebbe potuto generare ambiguità nel pubblico, tradizionalmente abituato ad associare la parola Invicta al brand italiano.

Il verdetto

Alla fine, l’ufficio britannico accolse le argomentazioni della società italiana, riconoscendo che il rischio di confusione fosse reale. La fondazione non ottenne dunque la registrazione del marchio “Invictus” per le categorie relative a gadget e abbigliamento, e fu per di più condannata al pagamento delle spese legali, pari a circa 1.600 sterline.

Dello stesso avviso l’Ufficio marchi UE che rigettò la domanda di marchio dell’Unione Europea “INVICTUS” No. 018065760 per abbigliamento, scarpe e cappelleria.

Queste decisioni hanno rappresentato una battuta d’arresto per il principe Harry e per la sua fondazione, ma anche un monito sul valore dei marchi storici e sull’importanza della tutela della proprietà intellettuale. La vicenda dimostra come, anche quando un nome nasce da un progetto nobile e da un intento benefico, deve comunque confrontarsi con le regole del mercato e con i diritti preesistenti di chi quel nome — o qualcosa di molto simile — lo ha già reso parte della propria storia.

I brevetti sono spesso considerati una sorta di “premio” per chi innova. L’inventore o l’azienda che sviluppa una nuova tecnologia ottiene un diritto esclusivo: può sfruttarla economicamente e impedire ad altri di farlo senza autorizzazione. È un meccanismo che stimola la ricerca e lo sviluppo, creando un equilibrio tra l’interesse privato a recuperare gli investimenti e l’interesse collettivo alla diffusione della conoscenza.

Ma questo equilibrio non è immutabile. Esistono situazioni in cui lo Stato può intervenire e ridimensionare i diritti del titolare del brevetto. Tra queste, le esigenze militari e la difesa nazionale hanno sempre avuto un ruolo centrale. Non è un caso: quando si parla di sicurezza collettiva, le leggi prevedono che i diritti privati possano essere compressi, fino ad arrivare – nei casi più estremi – all’espropriazione del brevetto.


La prospettiva internazionale: brevetti sì, ma non a ogni costo

A livello internazionale, già da tempo si riconosce che la tutela brevettuale deve fare i conti con l’interesse pubblico.

L’Accordo TRIPS del 1994, siglato nell’ambito del WTO, è un testo fondamentale in questo senso. Da un lato, stabilisce standard minimi di tutela della proprietà intellettuale; dall’altro, all’art. 31 introduce delle eccezioni importanti. Se uno Stato deve fronteggiare un’emergenza nazionale, una minaccia alla sicurezza pubblica o deve utilizzare un’invenzione per fini governativi non commerciali, può farlo senza il consenso del titolare del brevetto. In cambio, deve riconoscere un compenso “adeguato”.

Anche la Convenzione sul Brevetto Europeo (CBE) contiene norme simili. L’art. 53 consente di escludere dalla brevettabilità le invenzioni contrarie all’ordine pubblico o alla sicurezza. In più, lascia agli Stati membri ampi margini di autonomia per disciplinare le invenzioni di interesse militare: un riconoscimento esplicito del fatto che la sicurezza nazionale ha priorità sul diritto individuale.

In sostanza, il messaggio è chiaro: la protezione brevettuale è importante, ma non può diventare un ostacolo quando lo Stato deve tutelare la collettività.


La disciplina italiana: i poteri speciali dello Stato

L’Italia, con il Codice della Proprietà Industriale (D.lgs. 30/2005), ha recepito e dettagliato questi principi, prevedendo strumenti concreti che incidono direttamente sui diritti dei titolari di brevetti.

  1. Il segreto sulle invenzioni di interesse militare (artt. 198-202 CPI)
    Se un’invenzione riguarda la difesa nazionale, il Ministero della Difesa può imporre il vincolo di segretezza. Questo significa che l’inventore non è libero di divulgare l’invenzione, né di brevettarla all’estero senza autorizzazione. In pratica, il diritto brevettuale resta sospeso o limitato, per impedire che informazioni sensibili finiscano nelle mani sbagliate.
  2. Le licenze obbligatorie per ragioni di pubblica utilità (art. 141 CPI e artt. 70 ss.)
    In certi casi, lo Stato può imporre che un brevetto sia concesso in licenza a terzi. L’inventore resta titolare del brevetto, ma perde la libertà di scegliere con chi collaborare e a quali condizioni. È lo Stato a stabilire chi può usare la tecnologia, e a fissare l’ammontare del compenso.
  3. L’espropriazione del brevetto (art. 141, comma 4 CPI)
    Questo è lo strumento più radicale. Lo Stato può trasferire a sé la titolarità del brevetto per motivi di difesa o di sicurezza nazionale. Al titolare spetta un indennizzo, ma non ha più alcun potere di disporre della propria invenzione.

Questi tre strumenti mostrano bene come l’interesse pubblico possa incidere in maniera diversa e graduata sui diritti privati: dal semplice vincolo di segretezza, che limita la divulgazione, fino all’espropriazione, che priva del tutto l’inventore del brevetto.


Effetti pratici per privati e aziende

Per un inventore indipendente o un’impresa che lavora in settori ad alta tecnologia, tutto questo significa che la libertà di sfruttamento di un brevetto può essere ridotta sensibilmente.

  • Con il segreto militare, l’invenzione non può essere presentata in convegni, fiere o mercati internazionali: l’innovazione resta confinata, e le opportunità commerciali si riducono.
  • Con la licenza obbligatoria, il brevetto resta in mano al titolare, ma viene “aperto” a soggetti individuati dallo Stato: in questo modo si perde il controllo commerciale e strategico della tecnologia.
  • Con l’espropriazione, infine, l’azienda perde il brevetto stesso: non si tratta di una violazione dei diritti, ma di una loro sostituzione con un indennizzo economico deciso dallo Stato.

Questi strumenti incidono in particolare sui settori cosiddetti dual use, cioè quelli in cui una tecnologia sviluppata per fini civili può avere applicazioni militari: droni, sistemi di crittografia, software di intelligenza artificiale, nanotecnologie. Qui la linea di confine tra mercato e sicurezza nazionale è sempre più sottile, e il rischio di interventi statali più alto.


Un equilibrio delicato

Alla fine, il punto centrale è il bilanciamento. Da un lato, il brevetto serve a premiare chi innova; dall’altro, non può diventare un ostacolo quando la sicurezza collettiva è in gioco.

Lo Stato, quindi, non “cancella” il diritto del privato, ma lo piega a esigenze superiori. All’inventore viene riconosciuto un compenso, e in alcuni casi la possibilità di continuare a sfruttare l’invenzione. Ma è chiaro che la libertà imprenditoriale e la logica di mercato vengono subordinate a una logica più ampia: quella della difesa nazionale.

Con la crescita delle tecnologie dual use, questo tema diventerà sempre più attuale. La sfida sarà riuscire a tutelare l’innovazione privata senza indebolire la capacità dello Stato di proteggere i cittadini. Un equilibrio complesso, ma inevitabile, in cui il diritto brevettuale mostra tutti i suoi limiti e la sua funzione sociale.


Tabella riassuntiva: strumenti di limitazione dei brevetti per ragioni militari e di sicurezza

StrumentoNormativa di riferimentoEffetti sui diritti del titolareCompenso/Indennizzo
Segreto militareArtt. 198-202 CPIDivieto di divulgazione e di estensione all’estero senza autorizzazione del Ministero della Difesa. Brevetto “congelato” o limitato.Possibile riconoscimento economico, ma limitato.
Licenza obbligatoriaArtt. 70 ss. e art. 141 CPIObbligo di concedere l’uso dell’invenzione a soggetti designati dallo Stato. Perdita del controllo commerciale.Compenso stabilito dallo Stato o dal giudice.
EspropriazioneArt. 141, comma 4 CPITrasferimento della titolarità allo Stato. Il privato perde ogni diritto sull’invenzione.Indennizzo economico, stabilito d’autorità.

Alcuni esempi storici e recenti

Per capire meglio come questi strumenti funzionino nella pratica, bastano alcuni casi emblematici:

  • Seconda Guerra Mondiale – Radar e crittografia: molte tecnologie chiave, come i sistemi radar o le macchine di cifratura (celebre il caso “Enigma”), furono sottratte alla disponibilità dei singoli inventori e mantenute sotto stretto controllo statale. In diversi Paesi europei, brevetti connessi a queste tecnologie furono classificati come segreti militari.
  • Aviazione e motori a reazione (anni ’40-’50): in Regno Unito e Germania, diversi brevetti relativi ai motori a getto furono posti sotto segreto militare e successivamente utilizzati dalle Forze Armate, con compensi simbolici agli inventori, ma senza possibilità di sfruttamento libero sul mercato civile per anni.
  • Tecnologie di crittografia e cybersicurezza (anni ’90 e 2000): gli algoritmi crittografici, fondamentali sia per l’e-commerce che per le comunicazioni militari, in molti Paesi furono sottoposti a restrizioni severe all’esportazione, proprio per evitare che finissero in mani ostili. In alcuni casi, brevetti in questo ambito furono limitati o autorizzati solo in parte.
  • Pandemia Covid-19 e vaccini mRNA (2020-2022): pur non trattandosi di difesa militare in senso stretto, il tema delle licenze obbligatorie è tornato al centro del dibattito globale. Diversi Stati e organismi internazionali hanno proposto di sospendere o limitare i diritti brevettuali per permettere la produzione diffusa dei vaccini, richiamando proprio i principi dell’art. 31 TRIPS. È un esempio di come, in situazioni di emergenza, i diritti dei privati possano essere compressi a favore dell’interesse collettivo.

Questi esempi mostrano che le limitazioni ai brevetti non sono una mera ipotesi teorica, ma uno strumento utilizzato ogni volta che la sicurezza nazionale o la salute pubblica lo richiedono.

Nel 2025, una disputa legale ha coinvolto il calciatore del Chelsea e della nazionale inglese, Cole Palmer, e il rinomato produttore vinicolo francese Château Palmer. La controversia è nata quando Palmer ha cercato di registrare il marchio “Cold Palmer”, ispirato alla sua esultanza “shivering” (simulando il freddo), con l’intento di commercializzare una linea di prodotti che includeva abbigliamento, profumi, giocattoli e bevande, comprese quelle alcoliche.

La posizione di Château Palmer

Château Palmer, fondato nel 1814 e situato nella regione vinicola di Margaux, è uno dei produttori di vino più prestigiosi della Francia. Il loro vino, venduto fino a 750 sterline a bottiglia, è un simbolo di qualità e tradizione. L’azienda ha contestato la domanda di Palmer, temendo che l’uso del nome “Cold Palmer” nel settore delle bevande alcoliche potesse creare confusione tra i consumatori e danneggiare la loro reputazione consolidata.

La decisione dell’Ufficio della Proprietà Intellettuale

Dopo aver esaminato le argomentazioni di entrambe le parti, l’Ufficio della Proprietà Intellettuale del Regno Unito ha deciso di bloccare la parte della domanda di Palmer relativa alle bevande alcoliche, inclusi vino, liquori e bevande alcoliche miscelate.

In risposta all’opposizione e alla decisione dell’Ufficio, il team legale di Palmer ha quindi modificato la domanda, escludendo la categoria delle bevande alcoliche, inclusi vino, liquori e bevande alcoliche miscelate, per evitare ulteriori conflitti legali.

Implicazioni per la protezione del marchio

Questo caso evidenzia l’importanza di una strategia di protezione del marchio ben pianificata. È fondamentale considerare le potenziali sovrapposizioni con marchi esistenti, specialmente in settori sensibili come quello alimentare e alcolico. Anche se il nome o il marchio è distintivo, la registrazione in categorie non pertinenti può portare a conflitti legali e danni alla reputazione.

Conclusioni

La disputa tra Cole Palmer e Château Palmer sottolinea come la protezione del marchio sia cruciale in un mondo sempre più globalizzato e competitivo. Per i brand emergenti e le celebrità che cercano di capitalizzare sulla loro immagine, è essenziale navigare con attenzione le leggi sulla proprietà intellettuale per evitare conflitti e garantire una crescita sostenibile e rispettosa delle normative esistenti.

La materia brevettuale è caratterizzata da un equilibrio delicato tra la necessità di incentivare l’innovazione e quella di garantire correttezza e trasparenza nei rapporti tra inventori, imprese e terzi. In questo contesto, una delle questioni più delicate è rappresentata dalla brevettazione del non avente diritto, ossia l’ipotesi in cui un soggetto richieda o ottenga un brevetto pur non avendone titolo.

Cosa si intende per “non avente diritto”

Il diritto al brevetto appartiene, in via originaria, all’inventore che ha realizzato la soluzione tecnica nuova e originale. Tale diritto può poi essere trasferito ad altri soggetti (ad esempio imprese, università o partner commerciali) tramite atti di cessione o in forza di norme particolari che disciplinano i rapporti di lavoro.

Si parla di “non avente diritto” quando la domanda di brevetto viene presentata da chi non è inventore né ha ricevuto validamente il diritto all’invenzione. Le ipotesi più comuni sono:

  • il dipendente che deposita a proprio nome un’invenzione realizzata nell’ambito dell’attività aziendale, senza rispettare i diritti spettanti al datore di lavoro;
  • il socio, il consulente o il collaboratore che, avendo partecipato a un progetto comune, tenta di appropriarsi dell’invenzione presentandola come propria;
  • il terzo che, venuto a conoscenza di un’idea innovativa altrui, la deposita fraudolentemente presso l’Ufficio Brevetti.

In tutti questi casi, il soggetto che ha depositato la domanda non è legittimato e il suo titolo è, per così dire, “viziato”.

Normativa di riferimento

La disciplina italiana è contenuta principalmente nel Codice della Proprietà Industriale (d.lgs. 30/2005):

  • Art. 63 c.p.i.: stabilisce che il diritto al brevetto spetta all’inventore o ai suoi aventi causa.
  • Art. 64 c.p.i.: disciplina le invenzioni dei lavoratori subordinati, distinguendo tra invenzioni di servizio (che appartengono al datore), d’azienda (con diritto a un equo premio) e occasionali (che restano del dipendente).
  • Art. 118 c.p.i.: prevede l’azione di rivendicazione, con cui il vero titolare può far trasferire a sé la domanda o il brevetto già concesso. L’azione deve essere esercitata entro due anni dalla concessione, salvo il caso di mala fede del depositante, che rende l’azione imprescrittibile.

A livello europeo, l’art. 60 della Convenzione sul Brevetto Europeo (CBE) ribadisce che il diritto al brevetto spetta all’inventore o al suo avente causa, riconoscendo anche qui la possibilità di rivendicare un titolo ottenuto indebitamente.

Implicazioni giuridiche

La brevettazione da parte del non avente diritto produce una serie di effetti giuridici complessi:

  • Legittimazione precaria del titolare apparente: il depositante, fino a sentenza contraria, risulta formalmente titolare e può persino concedere licenze o intraprendere azioni giudiziarie, con potenziali conseguenze distorsive per il mercato.
  • Tutela del vero titolare: l’ordinamento appronta strumenti specifici per ristabilire la legalità, consentendo l’azione di rivendicazione e il risarcimento dei danni.
  • Incertezza nei traffici giuridici: i terzi che abbiano concluso contratti con il titolare apparente rischiano di vedersi opposta la carenza di titolarità, con problemi di validità ed efficacia degli atti compiuti.

Conseguenze giuridiche

Le conseguenze per il non avente diritto e per i terzi possono essere significative:

  1. Trasferimento del titolo: il giudice può ordinare il trasferimento della domanda o del brevetto al vero titolare. La sentenza ha effetti costitutivi e viene annotata nei registri dell’UIBM o dell’EPO.
  2. Risarcimento dei danni: se il depositante ha agito in mala fede, può essere condannato a risarcire i danni subiti dall’inventore legittimo. Si pensi, ad esempio, alla perdita di opportunità commerciali o all’indebito arricchimento derivante dallo sfruttamento economico dell’invenzione.
  3. Inefficacia dei contratti: le licenze o cessioni stipulate dal falso titolare possono essere contestate dal vero titolare, con conseguente instabilità per i rapporti contrattuali. Tuttavia, la buona fede dei terzi acquirenti costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare caso per caso.
  4. Profili penali: nei casi più gravi, l’appropriazione dell’invenzione altrui può integrare reati come l’appropriazione indebita o la violazione di segreti industriali, aggravando le responsabilità del non avente diritto.

Aspetti pratici e prevenzione dei conflitti

La casistica mostra come le controversie sulla titolarità dei brevetti nascano spesso in ambito aziendale o universitario, dove la ricerca e lo sviluppo coinvolgono più soggetti. Per questo motivo, è fondamentale:

  • predisporre contratti chiari in tema di invenzioni dei dipendenti e dei collaboratori;
  • regolare con precisione i rapporti di co-titolarità di brevetto, evitando conflitti futuri;
  • adottare procedure interne per la segnalazione e la registrazione delle invenzioni sviluppate in azienda;
  • garantire la riservatezza delle informazioni, così da ridurre il rischio di depositi fraudolenti da parte di terzi.

Considerazioni conclusive

La disciplina della brevettazione del non avente diritto evidenzia come il diritto della proprietà industriale non si limiti a proteggere l’invenzione come bene economico, ma si preoccupi di assicurare la giustizia dei rapporti giuridici. In altre parole, la legge non tutela soltanto l’innovazione, ma garantisce che la protezione sia riconosciuta esclusivamente a chi ne abbia effettivo titolo. Ne deriva l’importanza, per imprese e inventori, di adottare un approccio preventivo: regolare contrattualmente i rapporti, monitorare i depositi e agire tempestivamente in caso di appropriazione indebita dell’invenzione. Solo in questo modo il brevetto può mantenere la sua funzione di asset.

Poco meno di dodici anni fa, gli uffici dei marchi dell’Unione europea segnarono una tappa fondamentale nel percorso di convergenza delle prassi in materia di proprietà intellettuale. In quell’occasione fu, infatti, introdotto un approccio condiviso che aveva l’obiettivo di superare le divergenze tra le diverse autorità nazionali riguardo alla tutela dei marchi registrati in bianco e nero e in scala di grigi.

Da lì in poi, si è cercato di dettagliare sempre più la questione del colore, in particolare in relazione a eventuali conflitti con marchi anteriori e in relazione all’uso effettivo di un marchio.

Il contesto

Prima di allora, alcuni uffici ritenevano che un marchio registrato in bianco e nero fosse automaticamente protetto in tutti i colori possibili (“bianco e nero copre tutto”), mentre altri applicavano un criterio più restrittivo (“ciò che vedi è ciò che ottieni”), limitando la protezione al segno così come depositato. Questa mancanza di uniformità generava incertezza giuridica soprattutto in materia di priorità, opposizioni e uso effettivo.

Le modifiche apportate nel corso del tempo hanno contribuito a definire diverse linee guida, in particolare in relazione a diritto di priorità, conflitto con marchi anteriori e uso effettivo.

Il diritto di priorità

Il diritto di priorità consente a chi ha depositato un marchio in un Paese di rivendicare lo stesso deposito in un altro Paese entro sei mesi. Il problema, però, era stabilire se un marchio depositato in bianco e nero potesse essere considerato “identico” alla sua versione a colori.

Nel contesto della priorità, è stato stabilito che

  • un marchio in bianco e nero non è identico allo stesso marchio a colori, a meno che le differenze di colore siano talmente minime da risultare impercettibili a un consumatore medio;
  • lo stesso criterio vale per i marchi in scala di grigi, rispetto sia al bianco e nero che ai colori.

In sostanza, per rivendicare la priorità, occorre una coincidenza quasi totale tra le due versioni: anche piccole variazioni cromatiche possono bastare a negare l’identità, salvo che siano irrilevanti.

Diverso, invece, il discorso per uso effettivo e conflitto con marchi anteriori, dove il colore può essere flessibile, se non determinante per il carattere distintivo.

Conflitto con marchi anteriori

Nel caso di conflitto con marchi anteriori, la prospettiva cambia: quello che si valuta è il rischio di confusione tra segni.

  • Se il marchio anteriore è registrato in bianco e nero, in linea generale la protezione si estende a qualsiasi colore.
  • Tuttavia, se il colore del marchio è determinante per il suo carattere distintivo, allora la differenza di colore può ridurre il rischio di confusione.

Esempio: un marchio anteriore in bianco e nero potrebbe essere considerato identico a un marchio successivo a colori, a meno che il colore del marchio nuovo sia essenziale per distinguerlo.

Uso effettivo: quando il colore conta e non conta

Quando un marchio registrato include un colore specifico, l’uso dello stesso marchio in un colore diverso può comunque essere considerato uso effettivo, salvo che il colore registrato sia determinante per il carattere distintivo complessivo del marchio.

Esempio: un marchio registrato in rosso per abbigliamento, dove tuttavia il colore non contribuisce in maniera determinante al carattere distintivo del marchio stesso, può anche essere usato in colorazione differente nella pratica quotidiana, ed essere questa prova valevole ai fini della dimostrazione di utilizzo effettivo del marchio.

Nel caso, invece, di marchi in cui il colore è determinante per il carattere distintivo complessivo del marchio, l’uso del marchio in un colore differente non rappresenta uso effettivo, a meno che la differenza di colore consista di una tonalità davvero molto simile a quella del colore specificato in sede di registrazione.

Conclusione

L’evoluzione della prassi europea sulla protezione dei marchi in bianco e nero e l’approccio al colore ha rappresentato un importante passo verso maggiore chiarezza e uniformità.

La distinzione tra priorità, conflitti con marchi anteriori e uso effettivo consente, oggi, di bilanciare due esigenze fondamentali: certezza giuridica, richiedendo identità quasi totale per la priorità, e flessibilità, consentendo variazioni di colore quando non incidono sul carattere distintivo del marchio.

Questa armonizzazione non solo facilita la tutela dei marchi a livello comunitario, ma offre anche strumenti pratici agli operatori economici per gestire depositi, opposizioni e dimostrazione di uso effettivo, riducendo l’incertezza e rafforzando la protezione della proprietà intellettuale in tutta Europa.

Il rapporto tra lavoro dipendente e innovazione tecnologica porta con sé una domanda fondamentale: a chi spetta il diritto di brevettare un’invenzione sviluppata dal lavoratore?
La normativa italiana, contenuta nel Codice della Proprietà Industriale (d.lgs. 30/2005, art. 64 e ss.), individua una disciplina articolata che distingue tra diverse ipotesi, in base al tipo di rapporto tra le mansioni del dipendente, le risorse aziendali utilizzate e l’attività inventiva.


Invenzioni di servizio

Quando il dipendente è stato assunto con lo specifico compito di svolgere attività inventiva (ad esempio un ricercatore in un laboratorio R&S), l’invenzione rientra nella categoria delle invenzioni di servizio.

  • Il diritto al brevetto spetta direttamente al datore di lavoro, che potrà depositarlo a proprio nome.
  • Al dipendente rimane il diritto morale di essere riconosciuto come inventore.
  • Non è dovuto alcun compenso ulteriore oltre allo stipendio, poiché la retribuzione è considerata comprensiva dell’attività inventiva.

Ratio: l’attività inventiva costituisce proprio l’oggetto del contratto di lavoro.


Invenzioni d’azienda

Se il lavoratore non è stato assunto per fare ricerca, ma l’invenzione nasce comunque nello svolgimento delle sue mansioni e grazie all’uso delle risorse aziendali, si parla di invenzioni d’azienda.

  • Anche in questo caso il diritto al brevetto appartiene al datore di lavoro, che potrà depositarlo a proprio nome.
  • Tuttavia, il dipendente ha diritto a un equo premio, determinato tenendo conto:
    • del valore economico del brevetto,
    • dell’apporto dell’organizzazione aziendale,
    • delle mansioni e della retribuzione del lavoratore.
  • In caso di disaccordo, la legge prevede un meccanismo arbitrale per la quantificazione del premio.

Ratio: l’invenzione non era dovuta, ma è resa possibile dall’attività e dalle risorse aziendali.


Invenzioni occasionali

Quando l’invenzione è sviluppata fuori dalle mansioni lavorative e senza un utilizzo significativo di mezzi aziendali, ci si trova di fronte a un’invenzione occasionale.

  • In questo caso il diritto al brevetto spetta integralmente al dipendente, che può depositarlo a proprio nome e sfruttarlo liberamente.
  • Il datore di lavoro ha solo un diritto di opzione: può chiedere di acquisire il brevetto o una licenza d’uso, corrispondendo un prezzo equo all’inventore.

Ratio: l’invenzione è del tutto estranea alle mansioni e alle risorse aziendali, quindi appartiene al dipendente.


Tabella riassuntiva

FattispeciePresupposti principaliTitolare del brevettoDiritti del dipendenteDiritti del datore
Invenzione di servizioAttività inventiva rientra tra le mansioni previste dal contrattoDatore di lavoroPaternità moralePiena titolarità economica
Invenzione d’aziendaAttività inventiva non prevista, ma svolta con mezzi o conoscenze aziendaliDatore di lavoroPaternità morale + diritto all’equo premioPiena titolarità, obbligo di premio
Invenzione occasionaleAttività inventiva estranea alle mansioni, senza uso di mezzi aziendaliDipendentePiena titolarità (morale ed economica)Diritto di opzione per acquisire brevetto/licenza

Vantaggi e svantaggi della disciplina

  • Per l’impresa
    • Vantaggi: certezza giuridica sul diritto di depositare il brevetto; possibilità di consolidare un portafoglio titoli legato alle proprie attività di ricerca.
    • Svantaggi: obbligo di riconoscere premi ai dipendenti inventori nelle ipotesi d’azienda; rischio di perdere invenzioni strategiche se classificate come “occasionali”.
  • Per il dipendente
    • Vantaggi: sempre riconosciuto come inventore; può vantare diritti economici (equo premio) o addirittura la piena titolarità e la libertà di brevettare in caso di invenzione occasionale.
    • Svantaggi: nelle invenzioni di servizio non ottiene vantaggi economici aggiuntivi; la quantificazione dell’equo premio può diventare conflittuale.

Un equilibrio tra innovazione e diritti

La disciplina delle invenzioni dei dipendenti mira a bilanciare l’interesse dell’impresa, che investe in ricerca e sviluppo, con quello del lavoratore, che mette a disposizione ingegno e creatività.
In concreto:

  • il datore di lavoro ha la certezza di poter brevettare le invenzioni che nascono in azienda;
  • il dipendente ha la garanzia di essere sempre riconosciuto come autore e, in alcuni casi, di ricevere un compenso aggiuntivo o di poter brevettare in autonomia.

Una corretta gestione contrattuale e organizzativa (clausole chiare sui diritti, procedure trasparenti per l’equo premio, regolamenti interni) può trasformare questa disciplina da terreno di conflitto a leva strategica per l’innovazione e la crescita condivisa.

L’arpa è uno dei simboli più antichi e iconici dell’Irlanda, profondamente radicata nella storia, nella cultura e nell’identità nazionale del Paese. La sua immagine è immediatamente riconoscibile e compare non solo su monete, documenti ufficiali e passaporti, ma anche come marchio commerciale famoso in tutto il mondo.

Il modello storico più celebre è conservato presso il Trinity College di Dublino. Secondo la tradizione, quest’arpa apparteneva a Brian Boru, Gran Re d’Irlanda, morto nella celebre Battaglia di Clontarf nel 1014. Sebbene gli studi moderni datino lo strumento al XIV secolo, l’arpa mantiene la sua connessione simbolica con il leggendario re. Donata al Trinity College nel 1782, l’arpa è ancora oggi esposta e rappresenta un legame tangibile con la storia musicale e culturale dell’Irlanda.

Nel 1862, la celebre azienda Guinness decise di adottare proprio l’immagine dell’arpa come simbolo per le proprie bottiglie. Guinness si ispirò all’arpa del Trinity College per creare il proprio simbolo, registrato come marchio nel 1876. Pur richiamando la tradizione storica, l’arpa Guinness divenne un’icona a sé stante, famosa in tutto il mondo per la birra irlandese.

Quando, nel 1922, fu fondato lo Stato Libero d’Irlanda, il governo scelse di adottare anch’esso l’arpa come emblema nazionale, celebrando così l’identità irlandese e la continuità storica del simbolo.

Tuttavia, poiché il marchio Guinness deteneva già i diritti sull’immagine dell’arpa, fu necessario modificarne l’orientamento per evitare conflitti legali: l’arpa dello Stato irlandese è, perciò, rivolta verso sinistra, mentre quella del marchio Guinness guarda verso destra. Questa differenza, apparentemente piccola, ha permesso di preservare sia l’integrità del simbolo nazionale, sia i diritti commerciali dell’azienda.

Oggi, l’arpa continua a incarnare l’anima dell’Irlanda in tutte le sue declinazioni: come emblema storico, come simbolo di orgoglio nazionale e come icona internazionale del marchio Guinness. La sua storia ci ricorda come un singolo simbolo possa attraversare secoli, intrecciando leggenda, cultura e business in un intreccio unico e affascinante.

Perché serve chiarezza

Nella registrazione di un marchio, uno degli ostacoli più frequenti riguarda i segni che contengono parole descrittive o prive di carattere distintivo. Per esempio: “Fresh sardine” per indicare sardine o “Legal advice” per servizi legali. Questi termini, da soli, non possono essere monopolizzati, perché descrivono direttamente il prodotto o servizio di riferimento.

Il problema sorge quando queste parole sono inserite in un marchio figurativo (cioè con un logo, uno stile grafico o un’immagine). In quali casi gli elementi grafici riescono a trasformare un segno altrimenti non registrabile in un marchio valido?

Per dare risposte uniformi, gli uffici marchi dell’UE hanno stabilito una prassi comune, che oggi rappresenta un punto di riferimento per imprese e professionisti.

Gli elementi verbali: cosa non basta

La prassi chiarisce che alcuni accorgimenti grafici non sono sufficienti a rendere distintivo un termine descrittivo:

  • Caratteri standard (anche se in grassetto o corsivo).
  • Colori semplici applicati al testo o allo sfondo.
  • Segni di punteggiatura o simboli comuni.
  • Disposizioni particolari (parole in verticale, capovolte o su più righe).

Queste soluzioni non impediscono al consumatore di percepire subito il significato descrittivo.
Al contrario, un certo grado di stilizzazione originale può essere sufficiente: se il testo diventa difficilmente leggibile o assume una forma grafica inusuale, l’insieme può superare l’esame di registrazione.

Gli elementi figurativi: quando aiutano davvero

Non tutte le immagini o forme grafiche aggiungono carattere distintivo. Ad esempio:

  • Forme geometriche semplici usate come cornici (cerchi, quadrati, rettangoli) non bastano.
  • Rappresentazioni realistiche del prodotto (una sardina per indicare sardine, una bilancia per servizi legali) sono considerate descrittive.
  • Simboli abituali nel settore (etichette di prezzo, icone comuni) non rendono il marchio registrabile.

Sono, invece, accettabili gli elementi figurativi che:

  • hanno dimensioni e posizione tali da essere chiaramente percepibili,
  • propongono stilizzazioni insolite o creative,
  • creano un’impressione visiva diversa rispetto al semplice significato descrittivo.

Un esempio: una lisca di pesce stilizzata che cammina, usata al posto di un pesce realistico, può rendere distintivo un marchio altrimenti debole, essendo una rappresentazione simbolica/stilizzata dei prodotti che si discosta significativamente da una rappresentazione comune degli stessi.

La forza della combinazione

Elemento chiave della prassi è la valutazione d’insieme:

  • Sommare parole descrittive e immagini comuni non basta.
  • Tuttavia, se la combinazione è originale e crea un impatto visivo diverso dal messaggio descrittivo, il marchio può essere registrato.

In altre parole, la registrazione è possibile quando l’insieme “funziona” come segno distintivo, anche se i singoli elementi presi da soli non lo sono.

Cosa significa per le imprese

Questa prassi comune ha un duplice effetto positivo:

  1. Maggiore prevedibilità: le aziende sanno meglio in anticipo quali scelte grafiche possono rafforzare un marchio descrittivo.
  2. Maggiore uniformità: gli uffici marchi europei applicheranno criteri simili, riducendo il rischio di decisioni incoerenti.

Per i professionisti e i creativi, la lezione è chiara: per rendere registrabile un marchio con parole descrittive serve un lavoro grafico che non sia meramente decorativo, ma capace di creare un impatto distintivo e memorabile.

Premessa: marchio e rischio di confusione

Il marchio è lo strumento fondamentale attraverso cui un’impresa identifica i propri prodotti e servizi, distinguendoli da quelli dei concorrenti. La sua funzione essenziale è quella di garantire al consumatore l’origine imprenditoriale dei beni o servizi acquistati.

In questo quadro, il rischio di confusione costituisce il criterio centrale per valutare se un marchio possa coesistere con un altro già registrato. Tale rischio non dipende soltanto dalla somiglianza visiva, fonetica o concettuale dei segni, ma anche dal grado di vicinanza tra i prodotti e servizi che essi designano. È proprio in questa fase – il confronto dei prodotti e dei servizi – che si concentrano le maggiori complessità interpretative.

La mancanza di chiarezza nei termini utilizzati per descrivere prodotti e servizi e l’applicazione non uniforme dei criteri di valutazione hanno spesso generato incertezze e divergenze tra gli uffici nazionali. Da qui nasce l’esigenza della prassi comune PC 15, frutto della collaborazione tra EUIPO (Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale), BOIP (Benelux Office for Intellectual Property) e uffici nazionali, con l’obiettivo di armonizzare approcci e garantire maggiore prevedibilità agli operatori.

1. Il nodo dei termini non chiari e imprecisi

La giurisprudenza, a partire dalla sentenza IP Translator, ha fissato il principio che i prodotti e i servizi devono essere indicati con “chiarezza e precisione sufficienti” a permettere alle autorità e agli operatori di comprendere l’ambito di protezione. Tuttavia, i registri contengono ancora descrizioni generiche o vaghe.

Secondo la nuova prassi comune:

  • termini poco chiari non possono essere esclusi a priori dal confronto, ma devono essere considerati nel loro significato naturale e letterale, senza interpretazioni estensive;
  • non vi è alcun “premio” per chi ha depositato formule vaghe: un termine impreciso non può essere interpretato in senso favorevole al titolare che lo ha scelto;
  • la presenza di termini generici non può portare all’annullamento del marchio, ma ne limita l’effettiva portata nella fase comparativa;
  • se entrambi i marchi contengono lo stesso termine vago (es. “Macchine”) o sinonimi (“Prodotti in plastica” / “Articoli in plastica”), questi vanno considerati identici.

Il risultato è un approccio equilibrato: garantire il confronto effettivo, ma senza consentire che l’ambiguità si traduca in un vantaggio competitivo ingiustificato.

2. I criteri Canon e gli altri fattori

Dal 1998, con la celebre sentenza Canon, la Corte di giustizia ha stabilito che la somiglianza di prodotti e servizi deve essere valutata alla luce di più fattori. La PC 15 ne ha sistematizzato l’uso, concordando definizioni e principi comuni.

I fattori principali sono:

  • Natura: le caratteristiche intrinseche del prodotto/servizio (composizione, principio di funzionamento, condizione fisica).
  • Destinazione: la funzione o il bisogno che soddisfano.
  • Impiego: le modalità d’uso.
  • Complementarità: se un prodotto è indispensabile o strettamente legato all’altro, anche sul piano della percezione del consumatore.
  • Concorrenzialità: l’intercambiabilità, ovvero la capacità di soddisfare lo stesso bisogno.
  • Canali di distribuzione: i circuiti commerciali normalmente utilizzati.
  • Pubblico di riferimento: il target di consumatori.
  • Origine abituale: la provenienza economica comunemente associata a certi beni o servizi.

Un aspetto centrale della prassi è l’interrelazione tra i fattori: il peso di ciascuno varia caso per caso, e in alcune circostanze un singolo criterio (ad esempio la destinazione) può bastare per concludere in senso positivo o negativo sulla somiglianza.

La PC 15 chiarisce, inoltre, che gli stessi criteri si applicano sia al confronto tra prodotti, sia a quello tra prodotti e servizi o tra servizi, pur considerando le differenze tra beni materiali e immateriali.

3. Un passo verso maggiore coerenza

L’obiettivo è chiaro: ridurre le divergenze tra uffici nazionali e aumentare la prevedibilità. La convergenza sulle definizioni dei fattori e sul trattamento dei termini vaghi permette di:

  • rafforzare la certezza del diritto,
  • ridurre contenziosi basati su interpretazioni divergenti,
  • favorire una competizione leale tra operatori.

Il principio guida rimane quello della prospettiva commerciale reale: la valutazione deve rispecchiare il modo in cui i prodotti e i servizi sono percepiti e utilizzati sul mercato, non un’astratta costruzione classificatoria.

Quando pensiamo ai brevetti che hanno cambiato la storia dell’umanità, raramente ci viene in mente la carta igienica. Eppure, questo oggetto di uso quotidiano ha rappresentato una piccola grande rivoluzione, frutto di idee innovative, di un contesto sociale in trasformazione e di una precisa strategia imprenditoriale. Il brevetto è stato fondamentale non solo per proteggere un’invenzione, ma anche per creare un mercato che ancora oggi muove miliardi.

Le origini della carta igienica moderna

L’idea di utilizzare carta per l’igiene personale non è un’esclusiva occidentale. In Cina, già dal VI secolo d.C., si trovano testimonianze dell’uso di fogli di carta a tale scopo, mentre documenti del XIV secolo riportano che l’imperatore Zhu Yuanzhang disponeva di forniture annuali di carta igienica per la corte. Tuttavia, si trattava di usi ristretti a classi privilegiate e non esisteva una produzione industriale su larga scala.

In Occidente, fino all’Ottocento, la popolazione si arrangiava con materiali improvvisati: foglie, fieno, stracci, conchiglie, segatura. Solo nel 1857 Joseph Gayetty, imprenditore americano, commercializzò per la prima volta dei foglietti di carta igienica pretagliati, imbevuti di aloe, che definiva “medicated paper” e promuoveva come rimedio contro le emorroidi. Gayetty fu dunque un pioniere, ma non brevettò la sua invenzione. Inoltre, i costi elevati e la diffidenza dei consumatori limitarono molto la diffusione del prodotto.

Il brevetto di Seth Wheeler e la nascita del rotolo

La svolta arrivò qualche decennio dopo. Nel 1871, Seth Wheeler, inventore di Albany (New York), depositò un brevetto per un sistema di rotoli di carta igienica. Ma fu nel 1891 che ottenne la protezione più celebre: il brevetto n. 465.588, riguardante il rotolo di carta igienica perforata.

Il principio era tanto semplice quanto geniale: la carta veniva prodotta in un rotolo continuo, ma grazie a linee tratteggiate poteva essere strappata comodamente in foglietti regolari. Wheeler fondò quindi la Albany Perforated Wrapping Paper Company, che divenne attrice centrale in questo mercato nascente.

Questo brevetto segnò un passaggio cruciale: non solo si standardizzava un prodotto che fino ad allora era rimasto artigianale o marginale, ma si dava avvio a una produzione industriale che ne avrebbe permesso una diffusione capillare.

L’evoluzione industriale: la Scott Paper Company

Parallelamente all’attività di Wheeler, un’altra impresa fu decisiva: la Scott Paper Company, fondata nel 1879 dai fratelli Clarence e E. Irvin Scott.

I fratelli Scott furono tra i primi a intuire le potenzialità commerciali della carta igienica in rotoli, che iniziarono a vendere verso la fine dell’Ottocento.

Un aspetto interessante è che, in un’epoca in cui l’acquisto di un prodotto “intimo” suscitava imbarazzo, la Scott adottò una strategia di marketing insolita: vendeva i rotoli senza marchio, permettendo ai droghieri di rivenderli sotto il proprio nome. Questo accorgimento favorì la diffusione del prodotto, che negli anni Dieci e Venti del Novecento sarebbe diventato sempre più comune nelle case americane, accompagnando anche l’evoluzione dei bagni moderni.

L’importanza del brevetto

Il brevetto sulla carta igienica perforata non rappresentava soltanto una tutela tecnica. Il suo valore risiedeva in tre aspetti:

  1. Standardizzazione del prodotto – il sistema dei foglietti regolari e strappabili rese la carta igienica pratica e facilmente utilizzabile, elevandola rispetto alle alternative improvvisate.
  2. Protezione commerciale – consentì all’inventore e ai produttori di affermarsi in un mercato competitivo, evitando imitazioni immediate.
  3. Spinta culturale – un prodotto brevettato, promosso come innovativo e moderno, acquisiva prestigio e credibilità, favorendo la sua accettazione da parte del pubblico.

In un certo senso, il brevetto della carta igienica è un esempio paradigmatico del ruolo che la proprietà industriale può avere nel trasformare un’idea semplice in un bene di consumo universale.

Aneddoti e curiosità

  • Il dibattito eterno: sopra o sotto?
    Il disegno del brevetto di Wheeler del 1891 mostra chiaramente il rotolo con la carta che cade “sopra” e non “sotto”. Questo dettaglio è stato spesso citato come “la prova definitiva” di come il rotolo andrebbe posizionato. In realtà, nulla vieta l’uso inverso, ma il disegno brevettuale ha alimentato discussioni infinite, ancora oggi vive nelle famiglie.
  • La diffidenza dei consumatori
    Alla fine dell’Ottocento molti consideravano sconveniente parlare apertamente di carta igienica. Per questo motivo, le prime pubblicità la presentavano con termini vaghi e medici, insistendo più sulla salute che sulla funzione reale.
  • La Seconda guerra mondiale e l’esplosione dei consumi
    Fu nel Novecento, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, che la carta igienica divenne un bene di massa. Con l’aumento del tenore di vita e la diffusione dei bagni moderni, la produzione industriale crebbe in maniera esponenziale, consolidando un mercato ormai globale.

Il brevetto della carta igienica ci ricorda come anche le invenzioni apparentemente più banali possano avere un impatto enorme sulla vita quotidiana. Grazie alla protezione brevettuale e alla lungimiranza di alcuni imprenditori, un semplice rotolo di carta è diventato un oggetto indispensabile, che contribuisce alla salute e al benessere di miliardi di persone.

La sua storia è anche un esempio di come i brevetti non siano soltanto strumenti giuridici, ma leve per l’innovazione, la diffusione culturale e lo sviluppo economico.

E se oggi possiamo sorridere di fronte al dibattito “sopra o sotto”, dovremmo ricordarci che dietro quel dettaglio c’è un brevetto che ha cambiato – silenziosamente – il nostro modo di vivere.

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